Molto spesso i genitori adottivi si chiedono come raccontare dell’adozione al proprio figlio, come spiegargli tutto ciò che è avvenuto nella sua vita, quando farlo e che parole utilizzare. Quest’articolo vuole fugare qualche dubbio e dare qualche coordinata per muoversi con maggiore serenità e sicurezza.
Innanzitutto vorrei rilevare che, anche se spesso è utilizzato questo termine, non si può parlare di rivelazione vera e propria, ma piuttosto di un racconto che si struttura nella vita vissuta con il figlio, gradualmente ma sempre con estrema sincerità.
La conoscenza della realtà adottiva, infatti, deve diventare parte delle normali relazioni che si svolgono all’interno della famiglia. Se ne deve poter parlare liberamente e con serenità durante la vita quotidiana, nei momenti opportuni, senza che essa debba diventare un segreto, o al contrario riproposta continuamente e insistentemente.
L’organizzazione del racconto di com’è nata la famiglia adottiva è un compito molto importante per la costruzione del legame fra genitori e figli, perché questo può permettere ai genitori di raccontarsi, comunicando le proprie emozioni e i propri vissuti rispetto alle proprie vicende personali e a quelle dei loro figli. Nello stesso tempo permette ai bambini di vedersi inscritti in una continuità che, nonostante lo stacco dell’adozione, li faccia sentire dotati di una propria storia che continua e della quale si può parlare. Questo consente la costruzione di un’identità coerente e la possibilità di sentirsi parte di una nuova famiglia capace di accettare il figlio con il suo passato come persona intera.
Come raccontare la storia
E’ importante che i genitori siano sereni rispetto a tutte le fasi del percorso adottivo, in modo che quest’atteggiamento sia trasmesso in modo costante all’interno dei rapporti familiari.
Questa serenità si ottiene solo se essi hanno rielaborato in modo reale e profondo la propria vicenda personale, in particolare la sofferenza legata a quei momenti particolarmente difficili, come la scoperta della sterilità, che ha impedito la realizzazione del progetto di diventare genitori di un figlio generato dalla coppia stessa; trasmettere la gioia di diventare genitori di un bambino nato da altri e con una sua storia precedente è un momento di trasmissione di senso e di valore per il bambino adottivo e per gli stessi genitori.
Anche i bambini adottati hanno delle sofferenze che vanno accolte senza timori. Non bisogna lasciarsi sopraffare dal desiderio di cancellare il passato doloroso (“ora non pensarci più, adesso ci siamo noi che ti proteggiamo”). Spesso mantenere un atteggiamento di comprensione e di supporto rispetto a queste sofferenze, senza nasconderle e fuggirle non è facile. Ma quali sono i motivi per cui i genitori adottivi possono avere timore di parlare del passato dei propri figli?
Una motivazione può essere il timore che i bambini soffrano nel sentir parlare della propria storia, che è così complessa e particolare. Si nasconde il desiderio, da parte di alcuni genitori, di destorificare il bambino, privandolo di un passato che potrebbe essere difficile e doloroso, escludendo così tuttavia una parte importante di ciò che egli è e di come si è costruito nel tempo.
Risposte confuse alle domande che il figlio pone, parlare di altro, evitare di parlare dell’adozione, o alcuni atteggiamenti non verbali legati all’evitamento e alla negazione, possono trasmettere l’idea che l’adozione sia un momento da tenere nascosto o del quale non si vuole parlare.
La costruzione della storia con il figlio
La storia va costruita con il figlio. Si può costruire un libro, dove si possono aggiungere foto, disegni fatti dal figlio, che può così trasmettere le sue fantasie e i suoi vissuti. Se non ricorda i nomi dei genitori biologici si possono assegnare nomi di fantasia, se non ricorda il volto o i volti, si possono inventare.
Il bambino dovrà essere informato sulle informazioni che si hanno sul suo passato, anche se questo andrà fatto in base e con i modi che l’età del bambino o della bambina permettono e al suo livello di sviluppo. La storia del resto, cresce con lui per cui è necessario pensarla come un disvelamento graduale ma sincero.
E’ necessario accogliere tutte le domande del bambino nelle diverse fasi di sviluppo, anche quando queste possono diventare imbarazzanti e impegnative, perché è proprio il significato che noi diamo agli avvenimenti che aiuterà nostro figlio a rielaborare la sua storia e a integrare il suo passato con il suo presente.
Inoltre è bene prepararsi in anticipo, grazie agli spunti che vengono forniti dai Servizi o dagli Enti, di fronte a domande difficili che possono mettervi in difficoltà, perché l’evitamento e la fuga verranno immediatamente percepiti da vostro figlio e gli daranno la sensazione di una vicenda che deve rimanere nascosta, segreta, della quale i genitori non vogliono parlare.
Quando raccontare la storia?
Il racconto va fatto ogni volta che il bambino lo chiede. In assenza di domande esplicite, si possono cogliere le occasioni per parlarne, nel rispetto delle sue capacità e della sua voglia di ascolto. I genitori dovranno fare particolare attenzione anche a tutto ciò che il bambino comunica con il suo comportamento, che costituisce un atto comunicativo non verbale ma preciso. I disegni, le domande indirette, le fiabe che vorrà ascoltare, i giochi che farà, costituiranno spesso domande che andranno “ascoltate” e cui bisognerà dare risposta.
I bambini molto piccoli difficilmente faranno domande esplicite. Saranno i genitori che dovranno cogliere il momento opportuno per parlarne, con naturalezza e semplicità. Si può creare una favola o un racconto semplice da leggere ogni tanto, così da rendere familiare l’idea dell’adozione. I bambini più grandi invece, spesso hanno ricordi vividi, dei quali iniziano a parlare quando incominciano a fidarsi dei genitori adottivi. Essi dovranno essere rispettati nei loro tempi e modi di parlare più o meno direttamente del loro passato, in quanto a maggior ragione con loro il racconto si costruirà insieme.
Concetti chiave da tener presente.
La storia della coppia. Ripercorrete il vostro percorso dando voce alle emozioni che avete provato nel tempo. Il figlio deve potersi sentire frutto del vostro desiderio, al di là del fatto che sia nato biologicamente o no da voi.
La storia del bambino. Nel parlare dei genitori biologici, evitare di renderli migliori di quello che presumibilmente sono stati. Non è un atto di eroismo abbandonare un bambino. I genitori biologici sono tuttavia coloro che l’hanno messo al mondo, un ventre l’ha tenuto nel suo grembo per nove mesi, gli ha dato la vita. Pur evitando di far apparire i genitori biologici migliori di quello che sono stati, cerchiamo di offrire un risvolto positivo agli avvenimenti che l’hanno visto partecipe. Lui (o lei), per esempio, hanno avuto un dono immenso poiché sono stati amati, desiderati, voluti intensamente dai genitori adottivi.
L’abbandono. Riconoscere e accogliere la sofferenza del figlio senza dare giudizi, può avere un’importante funzione ripartiva. Nessuno toglie il valore degli avvenimenti che hanno visto i figli protagonisti, alcuni dei quali sono francamente ed evidentemente drammatici. Ma per quanto si può, sarebbe bene, pur sottolineando il significato negativo e doloroso degli avvenimenti, evitare di pronunciare giudizi sulle persone coinvolte.
La presenza di un terzo. Non bisogna dimenticare di nominare il tramite, la persona o le persone che hanno fatto in modo che genitori e bambino s’incontrassero (il giudice o i referenti dell’Ente nel paese straniero).
Il primo incontro. Raccontate il primo incontro con il bambino comunicando le emozioni provate quel giorno.
Il lieto fine. Come ogni fiaba, anche questa ha un lieto fine. Si può completare con un disegno fatto dal bambino, raccontando e rappresentando l’inizio della vita comune. Comunicare che non si tratta di una conclusione ma di una storia aperta e ancora tutta da costruire.
Mariangela Corrias
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Leggi anche: A che ora sono nato? Nuove risposte per la scuola
Molto consolante questo post. Mi accorgo che grosso modo è stata questa la strada percorsa da mia figlia che ha adottato due bimbe. Non è però un percorso sempre facile perché nella pratica si intersecano desideri, esigenze, aspettative, ricordi che possono rendere impervio il cammino. Ma certamente i “concetti chiave da tener presente” sono la base indispensabile per iniziare e continuare la strada dell’adozione di volta in volta gioiosa o faticosa.
tutto molto istruttivo ma bisogna essere sul campo cara dottoressa e gli enti che preparano a tutto ciò…lasciamo perdere. Ma vogliamo parlare anche dell’assoluta mancanza di proffesionalità della maggior parte del corpo insegnante nei riguardi dei bambini adottati? Perchè è riduttivo circoscrivere tutto alla sfera genitori – bambino,loro devono fare i conti con il nuovo mondo e questa è lavera difficoltà.Noi abbiamo superati i problemi, ma mi permetta ci vogliono dei genitori “tigre”per non essere sopraffatti dalla cretinaggine dei più.
Condivido in pieno quello che hai scritto. Noi ci stiamo passando in questo periodo e non è facile.
Contributo interessante e anche molto utile. Il contesto sociale che accompagna le coppie adottive non le aiuta a dotarsi delle coordinate per “organizzare il racconto” e qui ho trovato una descrizione pacata, rispettosissima della storia e delle esigenze del bambino, e anche umanamente “calda”.
Mi interrogo però sui presupposti della “serenità”, che si otterebbe “solo se essi (i genitori adottivi, nda) hanno rielaborato in modo reale e profondo la propria vicenda personale, in particolare la sofferenza legata a quei momenti particolarmente difficili, come la scoperta della sterilità, che ha impedito la realizzazione del progetto di diventare genitori di un figlio generato dalla coppia stessa”. Non nego che in tantissime coppie la “serenità” possa essere preclusa da quella mancata elaborazione, dunque la puntualizzazione della dottoressa Corrias non è fuorviante. Mi chiedo però per quanto tempo ancora questo Paese dovrà vincolare culturalmente la realizzazione “piena” della famiglia al concepimento di un figlio “naturale”, dando perciò corso alla necessità di “elaborare” chissà che, in vista di un’adozione.
Ricordo che quando con mia moglie e il mio bimbo andammo a trovare la curatrice speciale (una donna peraltro accogliente e sensibile), costei ci disse: “Sarete felici ora che avete colmato un vuoto”. Un vuoto? Ammetto che trasecolai, tantopiù al cospetto di una professionista, che coltiva valori o pregiudizi così diversi dai miei e che però orienta il “pensiero adottivo” alla luce della sua collaborazione col il TdM e il rapporto diretto con le coppie.
Non ho mai pensato che la realizzazione di sé fosse legata ad un figlio e trovo che sia in qualche modo patologico e regressivo un atteggiamento del genere. Altra cosa è pensare di amarlo follemente come si ama se stessi (naturale o adottato che sia) dopo averlo “cercato” e una volta che c’è.
Peraltro durante i colloqui preparatori con i servizi sociali, la psicologa (ripercorrendo il famoso questionario) ci chiese se l’arrivo ipotetico di un bimbo fosse per noi “importante” o “fondamentale”. Io risposi “importante” con grande convinzione, e motivai come ho motivato qui. Lei apprezzò, ritenendo poco inclini ad un corretto percorso adottivo coloro che invece la considerassero una questione “fondamentale”.
Si è vero il contributo è molto interessante, però anche in questo caso ritrovo il principio dell’elaborazione della sterilità. Bene io e mio marito non abbiamo dovuto elaborare alcun lutto, il nostro piu’ grande desiderio era accogliere, aprire regalare la nostra famiglia ad una creatura che ne avesse la necessità. Ed è stato difficile anche far comprendere il concetto ai servizi sociali, i quali ci hanno comunque invitato , durante il percorso ad effettuare indagini in tal senso. Non potevano credere che qualcuno potesse andare al di là del desiderio di un figlio biologico. Un bambino è un bambino nato da te o generato da altri, ed è impossibile non amarlo come proprio. Almeno per noi è stato cosi’.
Che fortunati…
Io, non riuscendo a generare un figlio, ho avuto una profonda delusione, dei rimpianti che grazie anche alla vicinanza di mio marito ho risolto in tempi abbastanza rapidi e quando ho affrontato l’avventura adottiva mi sentivo ormai libera dalle fantasie che avevo costruito sul bambino che sarebbe stato generato da noi.
L’immagine del neonato con delle fattezze in cui avrei potuto riconoscere me stessa, mio marito e magari nonni e suoceri è sfumata e al suo posto si è formata un’immagine di un bambino più colorato, più grande, con gli occhi scuri e i capelli neri….
Mi sembra che sentire il desiderio (non il bisogno) di generare un figlio, di sentirlo scalciare nella pancia (al di la dei soliti luoghi comuni delle riviste specializzate) sia molto naturale. Avere invece un approccio in cui il figlio si cerca da subito nel mondo mi sembra un po’ asettico, freddo, troppo intellettuale.
Mi sarebbe dispiaciuto non aver provato quel desiderio e quei sentimenti di cui sopra, probabilmente mi sarebbe mancato qualcosa.
Forse si chiama elaborazione del lutto proprio per questo, come nei lutti per la morte di qualcuno c’è chi li elabora in pochissimo e c’è chi piange per lungo tempo…
Scusa Laura.B ma nella scelta adottiva ci vedo poco di asettico, freddo o intellettuale, per me è stato esattamente il contrario, un’esperienza meravigliosa, entusiasmante e soprattutto illuminante. Io non ho dovuto elaborare alcun lutto, e mi dispiace molto per chi invece lo vive profondamente e magari non riesce a superarlo. Abbiamo voluto dare la disponibilità all’adozione, e abbiamo scoperto la sterilità strada facendo, “obbligati “dai servizi a sottoporci ai test, perderndo un buon mese e posticipando la sentenza purtroppo .Sapevo che mi figlia era già nata e mi stava aspettando.
Ciò che ho scritto non voleva essere critico nei tuoi confronti, volevo solo tentare di esprimere i miei stati d’animo che ho vissuto prima di adottare.
L’avventura di incontrare un figlio è un’esperienza che coinvolge tutti noi stessi ma, come spesso si dice, è molto diversa da persona a persona; ognuno di noi reagisce alle sofferenze, alle attese e agli ostacoli in modo differente; non dovremmo mai pensare che la nostra esperienza abbia validità universale, anzi dovremmo essere felici che è ciò che ci rende unici.
Mi spiace che Vi abbiano costretto a sottoporvi a degli esami che, così come li hai descritti, mi sembrano assolutamente inutili, e penso che si dovrebbero accertare soprattutto le motivazioni “forti” della coppia e l’assenza dell’eventuale delusione di non riuscire a generare.
Non puoi negare che questa assenza molto spesso derivi dall’elaborazione (lunga o corta, facile o travagliata) della delusioni di non riuscire ad avere il classico neonato. Nei casi come il tuo, nelle adozioni di chi ha già un figlio biologico e in parte anche nelle seconde adozioni i presupposti sono differenti.
Ognuno poi vive i passi successivi della genitorialità in modo personale (di coppia).
Si noi siamo stati fortunati, forse, non so. Forse non siamo normali. Ma penso che il conoscere prima quello che si apprende durante un percorso adottivo, probabilmente aiuterebbe a superare quel dolore.Non è mai piacevole sapere che c’è qualcuno che soffre perchè non riesce a concepire , e qualcun’altro che soffre altrettanto perchè non ha la fortuna di essere parte di una famiglia. Il concetto è questo,se si sapesse prima cosa si proverà , forse si potrebbe evitare di soffrire. Questo il mio personalissimo pensiero, e spero che tu sia già mamma. Auguri!
molto bello ed utile questo post. Mi piace l’idea del libro da costruire, e penso di svilupparla con mia figlia, adottata in Centro America quando aveva 1 anno ed 11 mesi. Non sembra ricordare molto di quanto era in istituto laggiù, vive serena ma adesso che sta migliorando molto il linguaggio ( ha quasi 4 anni ) porrà delle domande sulla sua nascita, prima o poi. Sono d’accordo che non bisogna “migliorare” l’aspetto dei suoi genitori naturali, ma neanche svilirli. nel nostro caso soprattutto la madre che a 16 anni ha portato avanti la gravidanza e fatto nascere questo tesoro, anche se poi non l’ha voluta e neanche allattata. la questione delle origini è una questione delicata ma sicuramente si può riuscire, con pazienza ed amore, a svilupparla nel modo migliore possibile.
Auguri a tutti i genitori adottivi !
Salve,
sarei contento se poteste aiutarmi. Ho una fidanzata alla quale tengo molto, polacca, carina, mi prende molto e la amo, è adottata in Italia.
Non sa nulla dei suoi genitori ed io, che sono immensamente legato alla mia città nativa ed ai miei genitori che mi hanno dato la vita, desidererei conoscere anzitutto la terra dove è nato il mio amore e poi anche sapere perché sua madre e suo padre non l’hanno tenuta con se, negli anni 80 in Polonia.
Ma lei ancora non è preparata e si limita a rispondere: i genitori sono quelli che ti hanno cresciuta.
Magra risposta.
Cosa devo fare? Cosa rispondere? Perché mi risponde così?
Vi prego, ditemi qualcosa
Gentile signor Claudio
posso capire il suo desiderio di conoscere una parte così importante della vita della sua fidanzata.
Lei, signor Claudio, è molto legato ai suoi genitori biologici e non si è mai avvicinato alle problematiche dell’adozione, se non indirettamente, attraverso la vita della ragazza che ama.
La sua ragazza, invece, ci convive da sempre, e certamente, dietro l’apparente laconicità della risposta, ci sono riflessioni, emozioni e vissuti elaborati nel corso degli anni, riassunti nella frase che lei ha riportato.
In effetti la sua ragazza ha ragione: i genitori sono quelli che ti hanno cresciuta. E’ con loro che si è formata, sono loro che l’hanno amata, accompagnata, sostenuta nel corso degli anni, loro l’hanno portata a scuola, fatta giocare, consolata e aiutata a diventare quella che è ora e che lei, signor Claudio, ama.
Spesso non è dato sapere come mai chi ha messo al mondo un figlio poi non riesce o non vuole tenerlo con sé. Certamente, questa domanda la sua ragazza se l’è posta, in un dato momento della sua vita, ha affrontato emozioni, dubbi, e incertezze e certamente si è data una risposta.
Il consiglio che mi sento di darle è, se tiene e ama davvero la sua fidanzata, di accettarla per quello che è ora rispettando il suo silenzio. La sua ragazza ha imparato a convivere con questa realtà, e penso si aspetti che anche lei faccia altrettanto. In fondo le cose più importanti lei le conosce già, e le scopre giorno per giorno vivendole accanto.
Quello che tuttavia le chiedo è: quale importanza ha per lei la storia adottiva della sua ragazza? E’ pronto ad accettarla per quello che è, rimanendole accanto nonostante ci sia una parte del suo passato che probabilmente nessuno, neanche la sua ragazza, conoscerà mai? Quali sono le sue paure e i suoi dubbi?
La sua ragazza è quella che ha davanti: continui ad amarla e a starle vicino. Se lo desidera, sarà lei a parlarle, nel momento in cui vorrà, e se lo vorrà.
Tanti auguri
Buongiorno a tutti…E’ stato molto interessante leggere tutti i post ed in alcuni mi sono rispecchiata molto (Luisa B.) e nel leggerne altri mi sono posta delle domande e anch’io, come le altre, ho cercato le risposte dentro e fuori di me. Mio marito ed io abbiamo “desiderato” il nostro figlio biologico, ma non è arrivato. Ci siamo sentiti una famiglia piccola piccola senza bambini per casa. Entrambi crediamo che i figli siano una Benedizione e, non arrivando, siamo andati in crisi, ponendoci tanti interrogativi ed io ho molto sofferto la “mancata gravidanza”, finchè non abbiamo deciso di seguire il percorso adottivo. La motivazione più grande è stata d’essere una bella famiglia, con i figli per casa…Accettare e vivere con serenità, di non avere avuto il pancione o non poterlo mai avere, non è una facile strada, nè immediata, nè risolvibile con sedute psicologiche o grande conforto e sostegno del marito. E’ troppo insita nella donna (almeno io sono così) la voglia d’essere madre d’una creatura, essendo state create in quanto donne con questa misteriosa “attitudine”…
Salve, mi fa sempre piacere leggere delle esperienze analoghe alla mia… sono d’ accordo sul fatto che accettare la sterilità è veramente difficile, ci vuole una forza e tanta fiducia nel futuro. Sì, perchè proprio guardando avanti ho avuto la fortuna di accogliere la mia piccola di 15 giorni che sto crescendo con tutta me stessa!!!!! Non so ancora quando, come le dirò che un giorno d’improvviso è arrivata nella nostra casa grazie ad una donna che ha scelto di farle avere una vita migliore di quella che poteva fare con lei. E’ vero non bisogna far passare i genitori biologici per migliori di quello che sono, ma io sarò sempre grata a questa donna che andando a partorire in ospedale non ha messo in pericolo la vita della mia cucciola…
Vorrei segnalare -se me lo permettete- un articolo/recensione scritto da una mamma che ha adottato su un piccolo libro cartonato che racconta l’adozione dedicato ai bambini 0-3 ed ai loro genitori. E’ da quando è incominciata l’avventura della scrittura di “C’è sempre un nido per me” di Teresa De Camillis e Teresa Zaccariello che pensavo di mettermi in contatto con voi… Sarebbe bello anche fare un incontro…
Grazie.
https://scrivendodigitale.wordpress.com/
il libro è illustrato da Nicoletta Costa, edito dalla Cooperativa Sociale San Saturnino Onlus di Roma insieme alla Giunti progetti educativi. e nasce dall’esperienza di oltre 20 anni della casa dei bambini Il girotondo di Roma.
Leggo sempre con piacere e curiosita’ i vostri articoli..Vorrei anch’io iniziare a compilare un piccolo album di foto x spiegare a nostra figlia,arrivataci in fasce dall’ado nazionale..
A tal proposito chiedo a voi consiglio sulle giuste parole da usare in riferimento alla madre bio..nello specifico e’ giusto dire che le voluto da subito un gran bene ed in fatti le ha donato la vita,ma che pero’ non voleva fare la mamma..e per questo motivo l’ha affidata alle cure delle infermiere in attesa dell’arrivo di mamma e papa’.Mi ripeto e’ giusto usare il verbo “volere”!?
a volte penso sarebbe piu’ politicamente corretto usare “potere/non essere in grado”..ma poi come definire l’impossibilita’!? cioe’ cosa rispondere quando chiedera’ dettagli ..xche’ non poteva!?
scusate se mi sono dilungata..